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Colombia: Snapshots @ work

DSC_0178Come promesso, ecco un piccolo flashback con alcune foto scattate a Bogotà.
Sappiate che ogni foto mi è quasi costata un “rischio rapina” 😉
Questo è il link della nuova Gallery che trovate tuttavia anche in spalla.
Passo a Flickr… molto più performante.

Hanno sparato a Pablo… Pablo è vivo

 

Fondazione F. Botero

Fondazione F. Botero

Come volevasi dimostrare, il giorno dopo la Colombia, o quanto meno Bogotà, mostra il suo lato morbido e accogliente che stride con la massiccia presenza di militari, esercito e polizia varia ad ogni angolo della strada. Se è vero che non si gira più con i giubbotti anti-proiettile come 10 anni fa, c’è da dire la gente si è evoluta: esiste un famosissimo sarto che confeziona vestiti su misura con tessuti anti-proiettile ed anti-coltello.
Se vi capita di passare di qua ricordatevi di non portare mai con voi un portatile, perché ad ogni check-point dovete indicare il numero di serie (!!!).
Sembra che la città e soprattutto le nuove generazioni vogliano scrollarsi di dosso il marchio di narcotrafficanti del globo promuovendo la grande quantità di prodotti che nascono dalle foglie di coca.
Cammina cammina tra le vie della Candelaria e del quartiere degli intagliatori di smeraldi (ma guarda, il colore verde sembra non volermi abbandonare mai…) con la musica di Shakira di sottofondo, alternata ai classici di Michal Jackson, tra venditori di accese di accendino e di minuti di chiamate ai cellulari, si arriva all Fondazione Botero (il Museo Botero si trova invece a Medellin). La Fondazione è in un bellissimo stabile coloniale che ospita anche una biblioteca e una mostra su Andy Warhol.
La cosa che più mi ha sorpreso di Botero, insieme alla sua ironia a 360°… persino sulla morte del figlio di 8 anni, è che trascorre la maggior parte dell’anno in Italia, a Pietrasanta. Beh?!? Direbbe qualcuno, io non lo sapevo.
Fotografare qui è un bel casino. Ogni volta che tiri fuori la macchina fotografica diventi un bersaglio di borseggiatori e gente che ti chiede spiccioli.
Quindi, foto poche, ma buone che una volta tornato caricherò sulla Gallery.
Prossima tappa: Cuzco, Perù.

Que viva Colombia!

La Candelaria11.00 ore di volo. Classe turistica. Famiglie sudamericane. Bambini che piangono. Musica hip-hop latina.
Scendo dall’aereo abbastanza ribaltato.
L’altimetro del mio orologio segna 2.600 mt di altitudine… sento l’aria rarefatta… devo essere in Colombia.
Scendo dall’aereo, perquisa del bagaglio a mano: devo essere in Colombia.
Arrivo al desk dell’immigrazione “chi sei, che lavoro fai, dove dormi, quanto ti fermi”, potrei essere anche negli USA, se non fosse che l’ispettore che mi fa le domande ha anche un mitra al collo: devo essere in Colombia.
Vado al ritiro bagagli trovo la valigia ammucchiata insieme ad altre in un angolo dimenticato da Dio: devo essere in Colombia.
Ci vengono a prendere con un pickup che in una mezz’oretta ci porta la nostro albergo. Le strade di periferia sono un ammasso di grattecieli che sembrano poggiarsi su baracche e garage i cui muri riportano qualche foro di proiettile, ma soprattutto un sacco di murales raffiguranti el majicho… Pablo Escobar: sono decisamente in Colombia. Il pickup si ferma nel traffico congestionato proprio davanti ad uno di questi murales con Pablo. Tirare fuori la macchina fotografica sembra uno sforzo immane e mi viene il fiatone per la carenza di ossigeno a cui il corpo non si è ancora abituato. Il conducente mi dice di rimetterla via: in questa zona della città potremmo diventare bersaglio di ladrones se mi vedono con una Nikon D90. Mmmm meglio riporre il ferro.
Arriviamo nella zona più antica e coloniale di Bogotà, La Candelaria. Il nostro albergo è una vecchia casa colonica su tre piani. La Polizia Nazionale presiede l’ingresso e al nostro passare si mette sull’attenti (!!!). Alla reception, una donna in divisa ci accoglie con un “Bienvenido in Bogotà” .
Mi scappa un “sti ca**i!!”.
Ragazzi che impatto! Qualcuno di voi avrà sicuramente viaggiato più di me, ma questo impatto con la capitale mondiale della cocaina, credo che me lo ricorderò. Salgo in camera, mi sbatto sul letto e guardo il mio passaporto: timbro dello Stato di Jamaica; timbro della Repubblica Colombiana. I due maggiori produttori mondiali di droga… cacchio sembra il passaporto di un narcotrafficante 😉

Non capisco più che giorno è e che ore sono. Decido di fare due passi in zona per acclimatarmi, mangiare una sopita con patate e delle salciccie, bere una birretta e poi di corsa a letto, schiavo del jetlag.

Sono sicuro che Bogotà mi ha già mostrato il suo lato più cattivo. Credo che sia una forma di difesa messa in atto da un popolo che per generazioni ha subito le oppressioni dei conquistatori spagnoli, dei missionari cattolici nel periodo della “conversione-forzata”, delle diverse dittature ed oppressioni militari.

Voglio andare a letto e dormire. Svegliarmi domani mattina e scoprire la città dalle forme e atmosfere morbide dei quadri di Botero.
Sono sotto l’equatore. Guardo un foto. Guardo fuori dalla finestra. Lassù, sopra l’equatore qualcuno si sta già svegliando 🙂

A+R

Rieccomi a parlare di viaggi. Rieccomi in viaggio. Un anno fa, in questo periodo, ero a Madrid. Oggi le miglia si allungano, ma si continua a parlare spagnolo: me ne vado in Colombia. La mia prima volta in America Latina. In questa giornata pre-partenza, come ogni volta, mi viene il mal di testa. È un mal di testa strano, diverso dai soliti, sembra che faccia già parte del viaggio. Il mio corpo espelle un po’ di ansia che accumulo ogni volta, prima della partenza. E’ stato per gli USA, lo è stato lo scorso anno per Santiago e lo è anche stavolta, nonostante stia via solo 10 giorni.
Lo scorso anno partivo portandomi tatuata nell’anima la frase “partire, per perdersi e ritrovarsi”, o come dice Irene Grandi (che non sarà Chatwin, ma rende comunque l’idea…) “…portare con sé la voglia di non tornare più”.
Questa volta si parte con la voglia di tornare. È bello avere qualcuno che ti aspetta. È bello sapere che c’è qualcuno che ti aspetta… anche se so che non è facile aspettare, si soffre sempre un po’. Alzi la mano chi non ha mai aspettato, qualcuno che tornasse o qualcuno che arrivasse per la prima volta.
Parto per essere una spugna. Assorbire colori, profumi, sapori e tante tante immagini da poter regalare al mio ritorno. Un viaggio è tale solo se condiviso.
Le storie da raccontare perdono valore se non si ha qualcuno a cui raccontarle.
Beh, io finalmente ho la Persona a cui raccontarle… perché le sa ascoltare… 
tic…tac…tic…tac… 😉
G